Il Nibbio una volta aveva una voce, non direi molto gradevole, ma comunque acuta, decisa.
Era però un animale invidioso di tutto e di tutti. Sapeva di essere imparentato con l’Aquila, ma questo fatto invece di costituire un vanto, alimentava un’invidia feroce: capiva di essere inferiore e si rodeva dalla rabbia per dover passare per il cugino povero.
Invidiava gli uccelli variopinti come il Pappagallo e il Pavone, lodati e vezzeggiati da tutti. Si mostrava sprezzante nei riguardi dell’usignolo dicendo:
— Sì, ha una bella vocetta, ma delicata, romantica, roba da donnicciole! Se devo cercare di migliorare la mia voce certamente non prenderò a modello questo stupido uccello. lo voglio una voce forte, che si imponga sulle altre.
Stava su un ramo di faggio a fare queste considerazioni, quando arrivò un Cavallo accaldato che desiderava riposarsi all’ombra della pianta.
Questo si sdraiò con l’intenzione di fare un sonnellino, ma punto da un cardo spinoso lanciò un lungo acutissimo nitrito.
— Oh, che meraviglia! — esclamò il Nibbio con entusiasmo; — questa è la voce che andrebbe bene per me: acuta, imponente, inconfondibile. Perché il Cavallo sì e io no? Mi basterà un po’ di buona volontà.
Incominciò così ad esercitarsi nell’imitazione di quel verso meraviglioso; provò e riprovò scorticandosi la gola, ma inutilmente. Quando, dopo molti tentativi senza successo, si rassegnò a tornare alla sua voce originale, ebbe la brutta sorpresa di averla persa. Gli rimase solo una parvenza di suono insignificante e rauco per tutta la vita.

