Barbablù | Favole per Bambini

Barbablù

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Tempo di lettura: 10 Minuti

C’era una volta un uomo che possedeva tanti bei palazzi in città e tante belle case in campagna, vasellame d’oro e d’argento, mobili guarniti di intarsi finissimi e carrozze tutte dorate dal tetto alla pedana… ma per sua disgrazia aveva la barba di color turchino chiaro, il che lo rendeva così brutto e così sgradevole che né donne né ragazze potevano trattenersi dallo scappare quando lo incontravano anche per caso. Nemmeno il suo vero nome è giunto fino a noi perché tutti lo chiamavano Barbablù e s’intendevano perfettamente.

Una dama di nobile famiglia, sua vicina, aveva due figlie meravigliosamente belle, ed egli ne domandò una in matrimonio, lasciando alla madre la cura di scegliere quale delle due gli voleva dare. Ma nessuna delle due ragazze lo voleva e se lo palleggiavano una con l’altra non potendo decidersi a sposare un uomo con la barba di quel colore. Poi, c’era un’altra considerazione che le faceva restìe : Barbablù aveva avuto parecchie mogli, e nessuno sapeva né come, né quando, né dove erano andate a finire !…

Ad ogni buon conto, per accelerare i tempi, Barbablù condusse la madre e le figliole, con tre o quattro delle loro amiche più intime e qualche giovanotto, in una sua amena villetta, dove si trattennero per otto giorni interi. Fu tutta una festa e una baldoria: passeggiate, partite di caccia e di pesca, feste da ballo, banchetti e conviti. Nessuno dormiva più. Si passavano nottate intere a divertirsi e a farsi scherzi reciprocamente… Insomma ogni cosa andò tanto bene che, in capo ad una settimana, la sorella minore cominciò a trovare che il padrone di casa non aveva la barba tanto turchina… e che in fin dei conti poteva benissimo essere una gran brava persona.

Finita la villeggiatura, il matrimonio fu concluso e celebrato pochi giorni dopo essere tornati in città.

Un mesetto più tardi, Barbablù disse alla moglie che era obbligato a fare un viaggio di almeno sei settimane in provincia, per un affare assai importante e urgente. La invitò a divertirsi quanto voleva durante la sua assenza, la lasciò libera d’invitare le sue amiche, se questo le faceva piacere, e di organizzare qualche gita in campagna con loro, e poi aggiunse:

– Tieni cara; queste sono le chiavi dei due guardaroba grandi, queste altre aprono le credenze del vasellame d’oro e d’argento dei giorni di festa, ed ecco qua le chiavi delle casseforti dove tengo rinchiuso tutto il mio denaro e quelle delle cassette in cui sono custodite le pietre preziose… questa è la chiave principale che apre le porte di tutti gli appartamenti. Quanto a questa piccola chiave che tu vedi, è quella del salottino in fondo alla galleria grande, giù a pian terreno. Spalanca tutto, vai dove vuoi, gira tutto il palazzo, ma in quel salottino, bada bene, ti proibisco di entrare… e te lo proibisco in modo tale che se per disgrazia ti accadesse di aprire quell’uscio, non so che cosa sarei capace di farti in un momento di collera.

Lei promise di obbedire e di fare esattamente tutto quello che le era stato raccomandato. E lui, dopo averla abbracciata, montò in carrozza e, frusta cocchiere, se ne andò per il suo viaggio.

Le vicine di casa e le amiche della sposina non aspettarono di essere mandate a chiamare per correre a farle visita, tanta era la curiosità che tutte avevano e l’impazienza di ficcare il naso dappertutto per vedere le ricchezze di quel palazzo. Finché c’era il marito nessuna s’era arrischiata a picchiare all’uscio per paura della barba turchina… ma, appena fuori lui, fu come una processione di formiche.

Eccole subito insieme a correre per le sale, per le camere, per i salotti, per le stanze degli armadi; poi passarono al piano superiore negli stanzoni di deposito dei mobili di lusso e lì rimasero a bocca aperta dinnanzi alla quantità immensa e alla bellezza degli arazzi, dei letti guarniti di stoffe ricamate, delle tende, dei divani, dei tavolini, delle poltrone e degli specchi dove si rifletteva la persona intera dalla testa ai piedi e le cui cornici, di cristallo, di bronzo, d’argento dorato, erano le più splendide e ricche che si fossero mai viste.

Bisognava sentirle, quelle pettegole, esaltare e invidiare la gran felicità della sposina… la quale invece non si divertiva affatto a contemplare tutte quelle magnificenze, divorata com’era dalla voglia di scappare al pian terreno e di aprire il salottino in fondo alla galleria grande.

Anzi, a un certo momento, la curiosità fu talmente irresistibile che, senza neppure considerare la sconvenienza di lasciare sole le sue invitate, sgattaiolò frettolosamente per le scalette segrete, saltando gli scalini a due a due… rischiando più di una volta di rompersi l’osso del collo.

Quando fu sull’uscio del salottino, si fermò improvvisamente per qualche minuto, ripensò alla proibizione fatta da suo marito e per un attimo prese paura pensando ai guai grossi che sarebbero potuti occorrerle per la sua disobbedienza… ma la tentazione fu così forte che non ci fu verso di vincerla; si frugò in tasca fretta e furia, tirò fuori la piccola chiave e, pur tremando come una foglia, aprì l’uscio.

Sulle prime non vide niente, perché le finestre erano ermeticamente serrate; poi, abituando l’occhio a quella oscurità, cominciò a vedere il pavimento tutto imbrattato di sangue rappreso nel quale si specchiavano i corpi di diverse donne morte appesi lungo le pareti… Erano i corpi delle mogli, che Barbablù aveva sposato e poi ucciso una alla volta… !

La povera donna fu lì lì per svenire dallo spavento, la piccola chiave del salotto, che aveva ritirato fuori dalla serratura, le scivolò di mano e cadde sul pavimento insanguinato.

Quando si fu un po’ riavuta, si chinò vincendo il terrore, cercò la chiave, la trovò, la raccattò, scappò via, chiuse l’uscio e risalì in camera sua per riprendere fiato. Ma l’emozione era stata troppo forte e non riuscì a tranquillizzarsi.

Peggio ancora… tutto ad un tratto si accorse che la chiave del salottino era imbrattata di sangue. Si provò ad asciugarla bene due o tre volte, ma il sangue non andava via; la lavò in tutte le maniere senza riuscire a ripulirla: la chiave purtroppo era fatata, e quando si puliva la macchia di sangue da una parte, essa ricompariva dall’altra.

Barbablù la sera stessa tornò dal suo viaggio. Arrivò all’improvviso e disse che a mezza strada aveva trovato un messaggio con la notizia che l’affare per il quale era partito era già stato risolto con suo grande profitto.

La sposa fece di tutto per mostrarsi contenta del suo sollecito ritorno.

L’indomani di buon’ora, Barbablù domandò il mazzo delle chiavi. Ahi !… Ahi !… Lei glielo consegnò subito, ma le tremavano le mani così forte che quell’altro indovinò subito quanto era accaduto.

“Scusa !…” — disse facendo il finto tonto. — “La chiave del salottino terreno non è nel mazzo. Ma come mai?”

“Mah!…” —rispose lei. —“Di sicuro l’ho lasciata in camera mia sul tavolino.”

“Ah!… me la darai dopo… “— replicò lui. — “Ma bada di non scordartene.”

Per due o tre volte, con una scusa o con un’altra, la giovane riuscì a tergiversare… ma un mattino la chiave dovette consegnarla davvero. Barbablù ci dette sopra un’occhiata rapida, poi disse alla moglie :

“Ma sbaglio o su questa chiave c’è del sangue?”

“Sangue?” — esclamò lei pallida come un cadavere. — “Uhm !… non ne so nulla!”

Ah! Tu non ne sai nulla?…” — ripeté Barbablù. —“Ma lo so io !… Tu sei voluta entrare nel salottino. Ebbene, ti ci farò entrare io stesso, e ti darò un posto fra tutte quelle signore che hai veduto !…”

Lei sbigottita si gettò ginocchioni ai piedi del consorte, gli domandò perdono della disobbedienza con tutti i segni di un pentimento sincero. Bella com’era e tutta in lacrime avrebbe intenerito una pietra, ma Barbablù aveva un cuore più duro di qualunque macigno.

“Bisogna rassegnarsi a morire, cara signora, e anche a morire senza indugi.”

“Ah! se devo morire davvero,” — disse lei alzando in faccia al marito i suoi grandi occhioni bagnati di lacrime, — “dammi almeno il tempo di riconciliarmi col Signore.”

“Ti sia concesso… “—riprese Barbablù. — “Ti dò cinque minuti ma nemmeno un secondo di più!…”

Rimasta sola, la poverina sconsolata chiamò a sé la sorella e le disse:

“Annina… (la sorella si chiamava Anna), mi raccomando a te, vai in cima alla torre e guarda se vedi venire i nostri fratelli, mi avevano promesso di venire proprio oggi a trovarmi, e se li vedi, per l’amor di Dio, fa’ dei segnali perché si spiccino.

La sorella Anna salì in cima alla torre e la poverina gridava di tanto in tanto:

“Anna, mia cara Annina, vedi niente che s’avvicina?”

Ed Anna rispondeva: “Vedo il sole che fa polverone e l’erba verde sul ciglione.”

Intanto dal pianterreno Barbablù col suo coltellaccio sguainato in mano, urlava alla moglie con quanto fiato aveva in gola:

“O vieni giù subito, o vengo su io!…”

“Un altro po’, un momento solo!” — rispondeva la moglie…

E poi subito parlava alla sorella sottovoce:

“Anna, mia cara Annina, vedi niente che s’avvicina?”

Ed Anna rispondeva: “Vedo il sole che fa polverone e l’erba verde sul ciglione.

“Scendi giù subito!” — sbraitava Barbablù, — “o son io che vengo su…”

“Vengo!” — rispondeva la moglie.

E di nuovo rivolta alla sorella: “Anna, mia cara Annina, vedi niente che s’avvicina?”

Vedo…” — rispose la sorella Anna, — “vedo un gran polverone che viene verso di noi.”

“Sono loro? sono i nostri fratelli?…”

“Ohimè no, sorella mia, è un branco di pecore.”

“Vieni o non vieni?” — ruggiva Barbablù.

“Un altro minuto e scendo…” — rispose la moglie.

E poi ricominciò: “Anna, mia cara Annina, vedi niente che s’avvicina?”

“Vedo” —rispose lei, —“due signori a cavallo che vengono verso il castello… ma sono lontani lontani…”

E un momento dopo gridò: “Ah! Aspetta… sia ringraziato Dio !… Sono i nostri fratelli… Faccio segnali a più non posso perché vengano qui di gran carriera.”

Barbablù ricominciò a gridare tanto forte da far tremare tutta la casa. La povera giovane scese allora la scala e andò a gettarsi ai suoi piedi, tutta scarmigliata e in lacrime.

“I pianti non servono a niente…” — disse Barbablù. — “È venuta l’ora di morire.”

L’afferrò per i capelli con una mano, brandendo il coltellaccio con l’altra per tagliarle la testa. La sventurata, alzando la faccia verso di lui, e guardandolo con gli occhi smarriti dalla paura della morte, gli si raccomandò di concederle un altro momento per farsi coraggio…

“No… no…” — disse lui. — “Raccomandati l’anima a Dio…”

E alzò il braccio che brandiva il coltello.

Ma in quel momento fu dato un colpo così forte all’uscio del castello che Barbablù d’un tratto si fermò. Qualcuno aprì e si videro entrare due cavalieri che, mettendo mano alle spade, si slanciarono d’impeto contro Barbablù. Lui riconobbe all’istante i fratelli di sua moglie, uno dragone e l’altro moschettiere, prese subito la rincorsa per mettersi in salvo, ma i due fratelli gli furono addosso e lo acchiapparono prima che potesse arrivare alla scalinata della porta, lo trapassarono da parte a parte con le spade e lo. lasciarono morire. La povera donna pareva morta anche lei come suo marito e non aveva nemmeno la forza di alzarsi per abbracciare i suoi fratelli.

Si scoperse poi che Barbablù non aveva eredi, e così sua moglie diventò padrona di tutte le ricchezze. Ne impiegò una parte per dare marito alla sorella Anna (un giovane gentiluomo che l’amava da tanto tempo ), un’altra parte per comprare il grado di capitano per i suoi fratelli… e il resto lo tenne per sé per sposarsi con un brav’uomo che le fece dimenticare i brutti giorni vissuti con Barbablù.

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